Alcune idee sulla governance dell’Università


L’Università e la ricerca scientifica: problemi la cui risoluzione affascina un po’ tutti, addetti ai lavori e cittadini, e soprattutto politici e amministratori che devono prendere decisioni rilevanti per lo sviluppo del Paese.

Ho accennato in precedente occasione ad alcune idee propositive, perché ho uno spirito soprattutto pragmatico e non mi piace solo fare la critica di quello che succede e cosa è oggi l’Università. Anche perché piuttosto che lamentarci di tutto ciò che anche noi stessi abbiamo contribuito a creare (lacrime di coccodrillo!), è bene prospettare idee, nuove ed innovative, che forse raccolte ed ordinate da una visione più ampia – che certamente il politico deve avere (e se non ce l’ha se la deve formare in breve tempo) – potrebbero essere utilizzate a vantaggio dell’Università e della ricerca che in essa si svolge. ma soprattutto a vantaggio dei cittadini e del Paese

Poi quando c’è un nuovo governo tutti si attendono novità, riforme, iniziative attese da tempo e molto spesso le attese sono tra di loro notevolmete contrastanti, eccetto che per un punto, che tra l’altro è sacrosanto. Quello di maggiori finanziamenti, di più impegni di spese, di più danari e giù con proposte e raffronti con i paesi con cui dobbiamo paragonarci nell’unione Europea e al di fuori di essa (vedi Stati Uniti e Giappone). Il famoso rapporto spesa di ricerca verso il PIL del Paese, (che bella la Finlandia!) è certo molto penalizzante in Italia e ogni governo tenta di promettere raddoppi in un quinquennio o addirittura (i più audaci) in un triennio, o i più consapevoli e realisti solo il raggiungimento della media OCSE in una legislatura. Ma ora i tempi sono più duri, si taglia!

Ma questo lo sappiamo tutti e lo sa molto meglio di noi il Ministro, che deve difendere e promuovere la materia, ma che si trova a dover lottare con le strettoie della spesa pubblica e con le necessità di un Paese squilibrato come il nostro, vedi ad es; la forbice Nord-Sud e la schiera di privilegi e di evasioni ed elusioni che si sono così tanto incrostati. Ma allora? È solo qui il problema? Non è che la necessità di soldi non sia essenziale per promuovere una migliore e più diffusa formazione conoscitiva e culturale del Paese da un lato, ma la stessa necessità è essenziale anche dall’altro lato, cioè per il tentativo di promuovere sempre più l’innovazione, per cercare di migliorare le performances del Paese nei confronti della competitività non solo nazionale ma soprattutto internazionale quando si parla di ricerca scientifica e di know-how tecnologico.

Ma non basta; il problema, tuttavia, è anche quello di capire cosa si può cercare di fare senza molti soldi o addirittura con pochi soldi, nel mentre –ovviamente- si attendono i soldi, perché è vero –è bene ribadirlo- che con i danari attuali le Università non possono che indietreggiare. Ed allora perché non andare ad esplorare come si può modificare la “governance”dell’Università, e tengo ad usare questo sostantivo che non è solo un neologismo d’accatto, ma ha un significato contenutistico rilevante in un sistema in cui il coinvolgimento ed il consenso non può essere solo marginale, e dove il velleitarismo del manager “dittatore”, che ogni tanto appare, è ridicolmente impraticabile e produrrebbe danni facilmente descrivibili e irreparabili.

Vorrei dire che il Rettore dell’Università –e parlo delle Università pubbliche- deve governarla, essendo eletto (e non nominato) da chi opera in essa e sottoponendosi –ovviamente- alla verifica elettorale e anche alla verifica di chi dà i soldi e protegge il cittadino ed il Paese, cioè il Governo, ovviamente anche attraverso un sistema obbiettivo e semplice, altrimenti ci vorranno decenni per crearlo e non c’è invece tempo da perdere.

Ma veniamo alle cose che si possono fare per l’Università, anche se alcune potranno sembrare un po’ dirompenti in un sistema che pur tante incrostazioni presenta. Le dico tutte d’un fiato e cercherò di motivarle molto brevemente, anche perché le idee e le proposte vanno ascoltate, valutate e discusse nei pregi e nei difetti per poi utilizzarle eventualmente nel modo che potranno essere più utili al Paese. Come premessa, è bene anche qui dirlo in modo quasi imperioso, nessuna riforma o anche solo cambiamento potrà realizzarsi con un benché minimo successo se non ci saranno prioritariamente e imprescindibilmente due premesse: la prima, il sistema di valutazione (terzo ed obiettivo, difficile a realizzare, ma ci vuole decisione e coraggio, qualità che certo possono benissimo realizzarsi e ci sono già utili avvii-vedi Ministro della Salute e anche altrove); la seconda, è il sistema di incentivi – disincentivi che è dovunque la molla dell’efficienza e dell’impegno, sistema diffusamente da utilizzare a tutti i livelli del sistema universitario, docente o non docente che sia, anche e soprattutto di tipo economico e di progressione di carriera.

Detto questo, nell’Università allora è necessario:

1) Abolire le Facoltà: bastano i corsi di laurea per l’ordinamento e il coordinamento didattico e i Dipartimenti (sia pure con importanti aggiustamenti in quanto a numerosità e progettualità culturale-scientifica) per l’attività di ricerca scientifica. Le Facoltà servono attualmente a ben poco, ma se si pensa invece che possano o debbano coordinare la ricerca scientifica attraverso, ad esempio, la chiamata dei professori, allora –se di dimensioni contenute- si trasformino in Dipartimenti! Infatti, sono questi ultimi che devono autonomamente darsi la capacità di produrre il meglio scientificamente, e quindi scegliersi i professori e il personale che meglio si addicono alle loro funzioni, purché siano poi sottoposti a giudizio esterno e obiettivo e sulla base di questo siano valutati, anche e soprattutto quando ottengono i finanziamenti. Il tutto con buona pace dei Presidi di Facoltà che sono in genere persone di alto livello e che potrebbero fare cose molto più produttive! In realtà, ormai, i corsi di laurea, nel bene e nel male, svolgono tutte le funzioni per l’organizzazione e il coordinamento della didattica. Se vi è necessità o utilità di proporre nuovi o diversi corsi di laurea, (meglio di no, veramente, perché ce ne sono fin troppi!) li possono proporre proprio i dipartimenti o meglio più dipartimenti, o direttamente il Senato Accademico o Comitati o Commissioni nominate dal Rettore,  e vedremo successivamente come è solo l’apporto multidisciplinare che può portare ad innovazioni valide, che sono invece quasi sempre restrittive e/o riduttive se create nell’ambito di una stessa Facoltà. Inoltre, le Facoltà non parlano quasi mai di ricerca scientifica, né per coordinarla, né per promuoverla, quindi non se ne può vedere la sua grande necessità almeno per questa finalità; il massimo che riescono a fare le Facoltà è la promozione delle giornate scientifiche di una o più Facoltà,  che sono, poi, uno dei tanti Congressi Scientifici che abbondano (fin troppi!) in Italia ed anche fuori del nostro Paese. 

2) Abolire la “tassonomia” culturale e scientifica dei Settori Scientifico Disciplinari (SSD), quella che io definisco, un pò sarcasticamente, la tassonomia dei saperi della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, che tanto lavoro e tempo prezioso ha costretto e costringerà a spendere da parte dei membri del Consiglio Universitario Nazionale. Le “strettoie” creano lobbies più che cultura e innovazione, o –come si suol dire- se si vuole essere benevoli- protezione di competenze (ma in modo molto esagerato – a dire il vero). Vedremo perché essi appaiono del tutto inutili, e non solo a me!

3) Abolire i concorsi a cattedra sia per la I fascia che per la II, lasciando il sistema delle cooptazioni (brutta parola, invero!) ai Dipartimenti con un vaglio da parte di un “search Committee” (cui potrebbe essere aggiunto un membro di scelta ministeriale, italiano o straniero, per salvaguardare la valenza nazionale e la garanzia del superamento del valore soglia, caso mai anche con diritto di veto), e il cui giudizio si basi essenzialmente sulla valutazione di una (o due) conferenza-seminario (anche pubbliche) su aspetti rilevanti della attività scientifica e culturale del candidato. Tuttavia, sulla richiesta del Dipartimento il neo-professore dovrebbe dimostrare anche la coerenza culturale-scientifica con le attività di sviluppo del Dipartimento, altrimenti anche un Premio Nobel potrebbe non essere coerente (né utile a se stesso e per gli altri) in un Dipartimento in cui i trends scientifici siano di natura diversa o lontana da quelli da lui perseguiti. Basta, -bisogna pur dire!- con i concorsi universitari, che pur hanno certamente prodotto la maggior parte dell’elite culturale del Paese, checchè se ne voglia blaterare (ora se ne parla sui giornali quotidiani solo per raccontare ingiustizie e/o addirittura malefatte). E allora, perché non si aboliscono trasformando drasticamente il meccanismo di  reclutamento, e non discutendo sempre e solo di “corsi e ricorsi storici”, come concorsi nazionali o locali (cosiddetti), o con una o due o tante idoneità, ed altre amenità che non modificano comunque nulla (sorteggio: già visto e poi abolito; votazioni miste a sorteggio: già viste prima e dopo il sorteggio e poi abolite; votazioni sole: già viste e poi abolite o che si vogliono abolire)

4) Ebbene si, anche abolire la figura dei ricercatori universitari (oggi di trasformazione in professori “aggregati” a tempo! Sic) ma sostituendoli con figure di contrattisti di ricerca (per 4 anni + 4 ad esempio), i post-doc di cui parlano sempre i quotidiani, in cui vengano pagati almeno il doppio delle attuali borse di studio (assegnisti o post-dottorandi) e possano (o debbano, ancor meglio) ottemperare alla indispensabile mobilità, scegliendo dove volersi formare (come dei veri “post-doc”), compatibilmente con le disponibilità dei vari Dipartimenti delle Università italiane, con possibilità di periodi di almeno 1-2 anni (ogni 4) anche presso istituzioni straniere. Questo non è precariato, è formazione culturale e scientifica vera, al fine di raggiungere autonomia e capacità di produrre ricerca scientifica ed innovazione in modo del tutto autonomo successivamente. Solo così si formano le vere leve dei migliori per fare ricerca (ambienti culturali-scientifici buoni e mobilità spinta, che consente acquisizione di ampie vedute, idee innovative e capacità critica, ingredienti indispensabili per la ricerca scientifica e l’innovazione). Non riterrei che necessariamente la stabilità crei serenità per il futuro, e quindi migliore efficienza ed efficacia lavorativa; quando questa stabilità è raggiunta troppo presto e facilmente può anche creare sonni profondi! 

Lo sbocco di coloro che non riescono poi a diventare professori (vedi appresso) può essere nelle industrie (che potrebbero collaborare anche a finanziare i post-doc secondo specifiche linee di ricerca), nella scuola superiore, in Enti pubblici e privati, ecc.

5) Ma la cosa più importante nell’Università è: abolire il mito della inscindibilità tra didattica e ricerca. E’ il punto più difficile da chiarire in poche parole, ma cercherò di illustrare questa idea, che pur ho constatato condivisa molto più diffusamente, anche nell’Università, di quanto non fosse prima, cioè da 4-5 anni che ho iniziato a parlarne con colleghi ed autorità accademiche. 

Oggi, i docenti universitari hanno per obbligo legislativo il dovere di svolgere ricerca scientifica, ma la cosa non è purtroppo tanto vera nella realtà, specie se guardiamo a quella ricerca che vorremmo sempre vedere alle frontiere della conoscenza, come dovrebbe essere per ottenere la qualifica che le compete di diritto. Con la innovazione delle lauree 3+2 in Italia (vedi legislature Berlinguer-Zecchino) alla quale mi sono anch’io convertito solo perché ne ho visto la importante valenza per il futuro del Paese e soprattutto per l’indispensabile aumento del numero dei laureati per i “quadri” del Paese di cui l’Italia ha bisogno (e ne abbiamo la metà rispetto alla Francia, alla Germania, all’Inghilterra a parità di popolazione).  Ma –stiamo attenti- stiamo parlando di quelli con laurea triennale, omologhi in certo senso al baccalaureato o al College. Tuttavia, il grosso errore in cui si è incorsi (a mio sommesso avviso), in parte purtroppo per demagogia (come diceva tempo fa anche Ernesto Galli Della Loggia parlando dell’Università), è quello di aver voluto fare una laurea di 3 anni ed una di 2 in serie, e non invece una di 3 anni professionalizzante, ed in parallelo una quinquennale (anche a numero chiuso, vivaddio!) per le classi dirigenti del Paese. Così si sarebbero evitati spezzettamenti di programmi e di studi che distraggono ed innervosiscono i migliori studenti, riducendo alla fine il +2 (laurea biennale) ad un insignificante orpello culturale e di contorno (con grandi sconti fatti dalle Università spesso per ragioni di concorrenza economica). Il 3+2 è andato anche a scapito di una formazione tipica completa e continua di laurea quinquennale (prima quadriennale), che invece ha sempre rappresentato il meglio della formazione nell’Università italiana, che non aveva proprio nulla da invidiare, anzi era invidiata da quelle straniere. Come semplice dimostrazione basta solo ricordare la cosiddetta “fuga dei cervelli”, che avviene dopo la laurea e/o il dottorato, seguita dalla constatazione che tutti (o quasi tutti) i laureati italiani che emigrano hanno successo all’estero, anche nelle Università più difficili e qualificate. Ma su questo torneremo in seguito, un po’ più in dettaglio.

Che c’entra allora questo con il mito della indiscindibilità tra didattica e ricerca? C’entra, perché quello dell’introduzione del 3+2 era un momento magico per l’Università italiana per creare “Senior lecturers” e i “Junior lecturers” (in altre parole i professori universitari di I e II fascia) con compiti di sola didattica, soprattutto per la laurea triennale e che –se lo volevano e ne erano capaci, -ma non obbligati- avrebbero potuto (o potrebbero!) benissimo anche accedere ai grants di ricerca con progetti di ricerca presentati agli organismi deputati a vagliare i loro progetti di ricerca scientifica. Questi docenti avrebbero dovuto e dovrebbero (mi auguro) anche avere uno stipendio un po’ superiore rispetto a quelli cui compete svolgere prevalentemente ricerca scientifica (che devono ovviamente svolgere anche, sia pur in maniera misurata, attività didattica, ma in misura molto minore delle categorie precedenti). Basterebbero poche migliaia di euro l’anno in più, sia perché non possano sentirsi docenti di serie B (e non lo sono perché la didattica nell’Università è di elevato, impegnativo e significativo valore) sia per l’impegno a full time nell’attività stessa, che non può non essere totalizzante. L’ultima legge per l’Università parla di 120 ore di didattica frontali minima per i docenti universitari, che sono assolutamente del tutto impegnative e che diventano in molti casi (specie in piccole Università) anche di numero superiore. Se, invece, accoppiate ad attività di ricerca diventano impossibili ad essere svolte, perché in questo caso l’impegno per l’attività di ricerca diverrebbe del tutto minimale e questa non potrebbe sicuramente giovarsi dell’impegno, la dedizione e la concentrazione ideativa e di studio che la “vera” e “buona” ricerca richiede. Pertanto, nella situazione attuale succederà (e sta già succedendo) che o i docenti non svolgono la loro attività didattica dal punto di vista quantitativo secondo la vigente legge universitaria, cercando in vari modi di “sfuggire” alla mannaia della stessa legge, oppure non riescono a svolgere in effetti nessuna ricerca scientifica se non attraverso, forse, la compiacenza di altri colleghi. Ci sono pure eccezioni, sebbene rare, a quel che dico, ma certamente sono molto molto poche.

I docenti della laurea magistrale (cioè la +2) potrebbero invece svolgere, in prevalenza –ma non esclusivamente-  una didattica molto meno rilevante, in quanto a numerosità di ore (ne basterebbero 10-20-30 di didattica frontale per anno), oltre ad attività seminariale accoppiata alla ricerca ed alla indispensabile attività formativa anche didattica (in italiano ed in inglese nelle discipline dove questa lingua è indispensabile) da dover trasfondere negli allievi, nei dottorandi, negli specializzandi, nei discenti che vengono formati alla ricerca accanto ai docenti-ricercatori. Inoltre, ai docenti che svolgono prevalentemente ricerca, visto che avranno salari un po’ inferiori, può essere concesso di avere incrementi di stipendio da grants di ricerca pubblici e/o privati che si guadagnano con i loro progetti di ricerca (ovviamente nei limiti di un certo % del loro stipendio, e nei limiti di quanto concesso dall’erogatore del grant). In questo modo i professori che svolgono prevalentemente didattica, sarebbero dall’Università un po’ meglio pagati, perché svolgono un’intensa attività di docenza (tengasi conto che l’Università incassa anche soldi dalle tasse degli studenti), mentre i docenti-ricercatori (pagati dall’Universtà un po’ meno perché fanno molto meno didattica –come quantità), potrebbero arrotondare il loro stipendio con una fetta dei grants di ricerca, che la bontà della stessa consente loro di ottenere.

E ovvio che resterebbe il problema di far traslare gli attuali docenti e ricercatori nei ruoli nuovi: ma la cosa è più semplice di quanto si possa credere o pensare. Tutti quelli che preferiscono non essere impegnati obbligatoriamente in attività di ricerca sarebbero incentivati (un po’ anche finanziariamente, come si è detto innanzi) a passare nei ruoli che ho indicato, a mò di esempio come Senior lecturer (Ia fascia) e Junior lecturer (IIa fascia) o altra dizione. In quest’ultimo ruolo, dopo vaglio accurato, potrebbero passare anche quegli studiosi attualmente inquadrati nei ruoli di ricercatore universitario (specie quelli anziani che in buona misura –ma non tutti- non svolgono attività di ricerca ma svolgono, ed amano svolgere, prevalente attività didattica). Gli altri ricercatori universitari potrebbero essere ad esaurimento e gradualmente passare in questo stesso ruolo o in quello con prevalenza per la ricerca (IIa fascia anche qui). In sostanza, oltre ai contrattisti / assegnisti di ricerca (4+4 anni) vi sarebbero i quattro ruoli: 2 di docenti di Ia fascia e 2 di docenti di IIa fascia, rispettivamente senza obbligo di ricerca e con gravame didattico elevato e pagati meglio dalle Università per i “lecturer” (di Ia e di IIa fascia);  e quelli, invece, con obbligo di ricerca e modesta (quantitativamente) attività didattica per gli altri due ruoli (sempre di Ia e di IIa fascia). E’ ovvio che anche la didattica deve essere ben valutata, alla stregua della ricerca, e i corsi di laurea ed i dipartimenti si dovranno giovare delle obbiettive valutazioni così come per la ricerca (certo la valutazione della didattica è più difficile per il ritrovamento di indicatori obiettivi!) oltre che dell’importante parere degli studenti. E’ ovvio che tutto quanto sopra debba essere basato su di un sistema di valutazione molto serio, obbiettivo ed indipendente dal sistema in cui si trova chi è valutato (come persona o come struttura). Da questo aspetto ne deriva anche la scomparsa della ventilata (a me sembra del tutto improvvida) suddivisione tra “teaching university” e ”research university”,  che è ingiusta e velleitaria per sé, perché ne dovrebbe conseguire (ed è quasi pazzesco pensare che si possa realizzare) una fuga dei bravi ricercatori dalle teaching university verso le “research university” e viceversa per i docenti più o solo versati per la didattica, alla guisa di “cotillons” danzanti di antica memoria! E’ molto più facile pensare (e realizzare) che vi siano in ciascuna università (ovviamente in numero più o meno numerosi) centri di eccellenza scientifica dove si svolge la stessa ai migliori livelli possibili, e centri di attività didattica dove si svolgono (soprattutto per le lauree triennali) attività formative sempre di ottimo livello. Ovviamente, non dimentichiamoci che due meccanismi sono indispensabili: i) quello della incentivazione-disincentivazione, che può arrivare fino alla amovibilità del docente in casi estremi o di ripetute manchevolezze, e quello ii) della valutazione (obiettiva e periodica), meccanismi strettamente interconnessi su cui per il momento non vale la pena di soffermarsi.

* * *

Ed ora accenniamo anche ad alcune entità professionali che si devono creare o ex novo o per riconversione di figure esistenti nell’università, al fine di rendere le stesse istituzioni adeguate al passo dei tempi e più competitive a livello nazionale ed internazionale, ed anche per proteggere i docenti e gli studiosi da compiti devianti e non produttivi ai fini delle attività istituzionali proprie dei docenti, cioè quelle didattiche e scientifiche.

Ecco i profili e professionalità di personale non docente  da formare e far lavorare nelle Università italiane. Essenzialmente si tratta di tre tipologie:

    1. a) segreteria scientifica: idonea alla compilazione e scrittura di progetti di ricerca in italiano ed in inglese (ovviamente per la parte non strettamente riguardante il contenuto del progetto di ricerca scientifica), nonchè anche idonea alla ricerca bibliografica nelle varie banche dati, idonea all’uso dei programmi di computer, incluso quelli grafici per formulare bozze di schemi e figure e tabelle  con buona-ottima conoscenza della lingua inglese (o altra lingua ove appropriata allo specifico Dipartimento);
    2. b) Lab-manager: tecnici idonei a tradurre le richieste dei ricercatori in aquisizioni di idonee apparecchiature, di sistemazione logistica di queste e di suppellettili varie, di organizzazione delle manutenzioni e di tutto quanto concerne le norme di sicurezza (legge 626 e successive e nonché quelle relative alla privacy) e il loro rispetto;
    3. c) Manager didattici, che, apparsi solo come una meteora con il programma Campus one, organizzino aule, orari, sedute di esami, prenotazioni, informazioni agli studenti e via dicendo.

Queste tre figure, per cui ci vorrebbe anche un’ intensa attività di riconversione di tanti attuali figure professionali, potrebbero fare un lavoro utilissimo, che ora invece viene fatto tutto o quasi tutto dai docenti e ricercatori che perdono (calcoli alla mano su un campione del tutto rappresentativo) quasi il 50% del loro tempo per queste funzioni e che sono assolutamente non proprie! Si può immaginare, facilmente, che risparmio di professionalità qualificate per operare maggiormente per la docenza e la ricerca! 

E parlare di ricerca scientifica, dell’articolazione dell’attività didattica e delle funzioni e dei poteri del Dipartimento, dei corsi di laurea e degli organi collegiali, ne parlerò in una prossima occasione, se mi sarà consentito. Ma soprattutto è bene cominciare a discutere, con pacatezza ed approfondimento se possibile e poi decidere, su questa materia. A mio avviso ne va della modernità delle Università italiane nei prossimi decenni.

Francesco Salvatore

-Ordinario di Biochimica Umana 

Ateneo Federico II

-Presidente e Coordinatore Scientifico

del CEINGE-Biotecnologie Avanzate



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