Anselmo Ballester (Roma 1897-1974) è il pittore che fonda agli inizi del Novecento la pubblicità  cinematografica, di cui resta il caposcuola e il massimo esponente, con oltre tremila manifesti realizzati e conservati. Dotato di creatività multiforme, fu illustratore, decoratore, scenografo, disegnatore commerciale, di moda e di architetture per gli interni, oltre che paesaggista e pittore di arte sacra. Fu però, soprattutto, un ritrattista di straordinaria creatività  e abilità  calligrafica, qualità essenziale in questa nuova arte. La fedeltà puntuale nella riproduzione dei volti degli attori protagonisti è infatti la tecnica più richiesta e la dote più ambita in questo settore emergente, in un momento storico in cui la fotografia sta muovendo i primi passi e le stesse pellicole, in bianco e nero, non hanno ancora sprigionato nelle masse quel fascino che consacra in pochi decenni il cinema a decima musa. 

Ballester è un esempio di figlio d’arte, raro nel XX secolo: si forma alla scuola del padre, pittore affermato, come nella più antica tradizione classica della pittura. Comincia dunque a dipingere fin da bambino, collaborando con Federico Ballester, famoso e attivissimo a Roma e a Parigi. Talento precoce, a tredici anni già frequenta la Scuola Libera del Nudo, presso l’Accademia di Francia, mentre lavora nel reparto disegnatori di un grande stabilimento litografico (IGAP), coadiuvando il padre nella realizzazione dei primi manifesti, che all’epoca vengono ancora lavorati su pietra. Il suo primo bozzetto è del 1914. Da allora, Ballester dipinge ininterrottamente per più di cinquant’anni, sempre più apprezzato dal pubblico e sempre più richiesto dalle più grandi Case di Produzione: Cines, Caesar, Tespi Film, Cosmopolis, Bossoli, Medusa, Titanus, Fox, Paramount, Columbia. Esposte nei musei più prestigiosi, da Torino a New York, le sue opere originali sono oggi in larga parte conservate presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, oltre all’archivio di famiglia.

Alcuni bozzetti cinematografici .


Appassionato delle più svariate forme artistiche, Ballester affianca alla pittura un’intensissima attività di studioso, meno conosciuta ma fondamentale, che lo distingue da tutti gli altri cartellonisti cinematografici. Per dominare i soggetti dall’interno, svolge ricerche storiche minuziose sui costumi, sugli arredamenti, sulle architetture, nelle biblioteche classiche di Roma, Casanatenese, Angelica, Collegio Romano, Nazionale, ideando uno stile così colto da risultare inimitabile. È una perizia unica, testimoniata negli innumerevoli schizzi e disegni preparatori, grazie a cui i suoi manifesti tesaurizzano la dimensione culturale più profonda di ogni soggetto, dal film più anonimo al grande capolavoro. Ogni bozzetto compendia certo una trama, ne esalta con forme e colori i protagonisti e le emozioni, ma fissa soprattutto il processo concettuale nell’ideazione del tema filmico, concretizzando in una forma simbolica chiara e leggibile il vissuto emotivo del momento.

Il bozzetto cinematografico è trasformato così in un’icona, che suscita nell’immaginario collettivo l’attrazione promessa dal film. Giocando sui piani prospettici, Ballester provoca e cattura l’attenzione con figure centrali vistose, che moltiplicano gli sfondi a effetto. Lo sguardo più distratto è magnetizzato istintivamente dal ritratto in primo piano dei protagonisti. La forza espressiva dei volti e dei corpi non si limita alla fedeltà fotografica: il pennello scolpisce le emozioni nelle fisionomie con l’uso spregiudicato di colori surreali e magnetici, ancora più significativi per un’arte che nasce muta e in bianco e nero. Rossi e verdi squillanti, gialli eccessivi materializzano prepotentemente gli stati d’animo, cesellati nei particolari con cura fisiognomica. Lo spazio modesto di una tela acquista una vibrazione dinamica, in cui rivive un’intera sceneggiatura. Per il pubblico italiano, ad esempio, il classico Ombre rosse è un modello di traduzione geniale di un titolo nella grafica: il profilo rosso cupo del guerriero, che inquadra i volti degli attori, li esalta, creando altrettanti protagonisti a corona di John Wayne, e insieme materializza dall’ombra il nemico “rosso” che incombe. Rossi cavalli si avventano in primo piano, già  proiettati idealmente dal manifesto allo schermo, e cupa, nello sfondo, si staglia la carrozza del più famoso inseguimento western. Un altro classico del pennello di Ballester è il trionfo della bellezza femminile. Esemplare è Trinidad: la sensualità di Rita Hayworth trabocca dalle pieghe indiavolate di un panneggio purpureo, simbolo provocante della sua danza sfrenata. Mentre ubbidisce ai dettami della censura, il manifesto moltiplica l’effetto eccitante. Infine, le sue creazioni evocano plasticamente l’identità e la memoria del XX secolo: la lotta di classe, in Fronte del porto, l’alienazione della tecnologia, in Tempi moderni, la crisi del soggetto, in Morte di un commesso viaggiatore, il sogno americano, in È arrivata la felicità . Mille scenari inventano col manifesto il mondo magico della cinematografia.

Per il pubblico italiano, un discorso a sé merita infine un capolavoro di Ballester, che non fu concepito per il cinema: è il bozzetto realizzato per la traslazione della salma del Milite Ignoto all’Altare della Patria (1921), dove ora è custodito, nel Museo del Risorgimento. Un uomo tragicamente spirituale, trasumanato nel sudario della bandiera, spicca sulla prospettiva maestosa del Vittoriano: è il soldato senza volto, che impersona l’eroismo della Nazione. Le foglie cadenti dall’alloro che l’incorona, consegnano ai cittadini la durezza del suo sacrificio. 

La produzione di Ballester offre dunque un archivio ricchissimo di simbolismi fondamentali per la storia delle idee del Novecento. Sono i soggetti che esprimono nella filmografia l’identità e la coscienza di un’epoca con le sue drammatiche trasformazioni. Le sue tempere originali ne conservano la testimonianza, la storia e la memoria, altrimenti destinata a svanire con la massa delle pellicole obsolete e irrecuperabili. Con l’archivio Ballester si apre un capitolo della storia dell’arte novecentesca, che ancora deve essere del tutto esplorato. 


LIDIA PROCESI